«Siete alawiti o sunniti?»
Abbiamo incontrato in Siria una testimone di uno dei tanti massacri compiuti contro la minoranza che molti identificano col vecchio regime di Assad
di Daniele Raineri, foto di Gabriele Micalizzi

Sonobar è un posto di campagna nell’entroterra di Latakia, in Siria, dove abitano 15mila persone. Ci sono case di contadini in mezzo agli orti con molto spazio fra l’una e l’altra, e tra gli alberi si vede il mare in lontananza. È una zona di alawiti, una minoranza religiosa che molti siriani identificano con il regime di Bashar al Assad, il dittatore alawita scappato nel dicembre del 2024.
A marzo in questa zona ci sono stati tre giorni di massacri contro la popolazione alawita da parte delle milizie ribelli che durante la guerra civile avevano combattuto contro Assad, e adesso sono diventate la forza dominante nel paese. I miliziani hanno fatto irruzione nelle case e hanno ucciso circa millecinquecento persone.
Sonobar e tutta la regione erano state relativamente risparmiate dalla guerra civile tra Assad e ribelli cominciata nel 2011. Qui non era stato sparato nemmeno un colpo e non c’erano stati i bombardamenti che avevano devastato il resto della Siria. Ma molti uomini di queste campagne erano stati arruolati nell’esercito di Assad ed erano stati uccisi in altre regioni.
A essere precisi, molte milizie non dovrebbero essere nemmeno più chiamate milizie perché sono state integrate nell’esercito regolare della nuova Siria post rivoluzione. A vederle però sembrano ancora milizie. Nove fazioni diverse a turno hanno dato la caccia agli alawiti di Sonobar e ne hanno uccisi 236, secondo una ricostruzione con fonti multiple pubblicata a giugno da Reuters. La maggior parte maschi fra i 16 e i 40 anni d’età. Hanno scritto su un muro: «Eravate una minoranza, adesso siete una rarità».
A un incrocio a un chilometro da Sonobar c’è un posto di blocco sorvegliato da questi soldati armati, sulla ventina, e alcuni portano sul petto una toppa che dice «jihad, vittoria o martirio»: è un triangolo rosso rovesciato – citazione del triangolo rosso usato da Hamas nei video. Le milizie citano Hamas ma il loro presidente e comandante in capo, Ahmad al Sharaa, non vuole una guerra contro Israele. Ai posti di blocco sulla strada principale che segue la linea della costa per andare a Latakia invece c’erano gli uomini in divisa nera della Sicurezza generale, che era il servizio d’ordine spietato del gruppo Hayat Tahrir al Sham, quello che soltanto sette mesi fa controllava la regione di Idlib e che poi ha conquistato rapidamente altre città prima di prendere il controllo di Damasco e costringere Assad alla fuga. Adesso questi uomini sono i fedelissimi del nuovo potere.

Un soldato governativo al checkpoint (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
In una casa di Sonobar una testimone dei massacri di marzo parla con il Post di quello che ha visto. È una donna di cinquant’anni, che ha passato la sua vita in questo posto. Dice che prima è arrivato un gruppo che le ha messo sottosopra casa con il pretesto di cercare armi. Mostra un piccolo contenitore, nel quale custodiva i suoi gioielli. È vuoto, e sfondato. Si sono portati via tutto quello che volevano, anche le bombole del gas, dice.
Nella casa della testimone sono arrivate altre donne della zona, una cinquantina, perché si era capito che c’era un rastrellamento in corso. Poi è arrivato un altro gruppo, anche questo in mimetica, con le armi e le giberne che indossano i combattenti. Gli uomini hanno strappato gli orecchini alle donne. Chiediamo se le hanno attaccate, la risposta è no. Poi hanno sparato al cane nell’aia.

Il contenitore dove la testimone teneva i suoi gioielli (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Il fratello e il nipote della testimone, di 55 e 45 anni, si erano nascosti poco lontano. Ma quando i miliziani hanno ammazzato il cane e le donne in casa spaventate si sono messe a gridare, hanno fatto qualche passo in avanti fra le piante per vedere che cosa succedeva.
Sono morti per coincidenza, dice lei. Proprio mentre venivano avanti sono stati visti dai miliziani. C’è stato un momento di sorpresa reciproca, entrambe le parti si sono fermate. Poi i due hanno tentato di correre via e gli altri hanno urlato loro di fermarsi. Erano a una ventina di passi dalla casa. La testimone continua a indicare tutti i punti dove si sono svolti i fatti con una mano. Li hanno fatti sdraiare minacciandoli con le armi, spiega. I miliziani hanno chiesto: «siete alawiti o sunniti?». Quando i due hanno risposto alawiti gli hanno sparato. Proprio qui, sotto questo banano, dice lei. Poi attraversa l’aia e dall’altra parte, sotto un albero, indica una doppia tomba scavata nel terreno.

Uno dei luoghi dove sono seppelliti gli alawiti uccisi dalle milizie ribelli (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Ci hanno ordinato di lasciare i cadaveri dove stavano per quattro giorni, come punizione, dice la testimone. Ma quando se ne sono andati via li abbiamo trascinati dove ora sono sepolti. Quando la donna ha finito di raccontare la sua storia è rientrata in casa, per preparare un caffè alla turca.
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I massacri di marzo erano cominciati quando alcuni ex militari del regime assadista avevano tentato una sollevazione armata nei dintorni di Latakia. Li chiamano fulul, i rimasugli della dittatura – è un termine che ci riporta indietro ai tempi della Primavera araba, quattordici anni fa, quando in Egitto, in Tunisia e in Libia le persone che per decenni avevano appoggiato il potere autoritario non si rassegnavano al cambiamento e tentavano la restaurazione del potere (con qualche successo).

Una casa di Sonobar (Gabriele Micalizzi, CESURA, per il Post)
Gli assadisti rimasti senza Assad avevano attaccato alcuni posti di blocco e avevano ucciso decine di miliziani. Era stata una manovra ben coordinata, con attacchi simultanei in molti luoghi, ma anche disperata. Non si capisce che cosa sperassero di ottenere. I miliziani erano molti di più. Inoltre i vincitori della guerra civile non vedevano l’ora di avere un pretesto per lasciarsi andare a violenze contro gli alawiti, come rappresaglia per la repressione brutale subita dal regime di Assad negli anni precedenti.
«Io non sono una fulul. Qui siamo contadini. Non abbiamo mai toccato un’arma. Abbiamo sempre vissuto in pace», dice la testimone.
Il governo siriano ha creato una commissione d’inchiesta che questa settimana dovrebbe consegnare un rapporto completo delle stragi di marzo, e per ora non fa dichiarazioni. L’inchiesta di Reuters ha dimostrato che il portavoce del ministero della Difesa, Abdel Ghani, era in contatto continuo con le fazioni durante i tre giorni di massacri.